Recensione a cura di Giuseppina Luongo Bartolini
Pubblicata su:Literary nr. 4/2006 Io, Arpa Eolia di Elisa Sala Borin Questo libro della Sala Borin che porta in copertina un'illustrazione simbolica di donna, segnando un punto a suo favore, per la passione che riesce benissimo ad esprimere anche in pittura, segue le sue precedenti pubblicazioni dai titoli esplicativi come Diamoci del tu (2000), Il muro dietro la porta (2001), Le storie del bosco oscuro (2002), dopo un percorso di apprendistato e di ricerca, dunque, tra i due fronti della prosa e della poesia, prima di giungere alle pagine di quest'ultimo intitolato significativamente "Io, arpa Eolia", per il quale ella stessa confessa, in fondo, "Nella mia superbia voglio lasciare agli altri tutta me stessa, perché a parole non sono mai stata una comunicatrice, e vorrei – per il momento e solo un sogno – lasciare alle mie discendenti il ricordo di una strana e imprevedibile antenata". Lo stesso titolo di questa raccolta che vuole proporsi, secondo l'intenzione della scrittrice, come un assemblamento di pagine sparse come foglie raccolte dopo un'impetuosa folata di vento, indulge significativamente alla memoria del Re Davide il quale, secondo la leggenda, aveva "appeso una cetra eolia sopra il suo letto, posizionata in modo che tutte le sere, verso mezzanotte, il vento la facesse vibrare". Ella non è ignara del suo intento diretto all'espressione chiara e sicura del proprio "lo". Anzi lo definisce senza indugi, nelle vane proposizioni in cui esplicita la consapevolezza del suo forte intimismo, della sua libertà da qualsivoglia corrente letteraria, dell'amore che nutre ed alimenta per le piccole cose, a vantaggio della creazione fantastica che risolve la sua personale problematicità in ritmi interessanti e genuini. Come nei versi de I semi del tempo (Panta rei ), ove dice: "Arrivo | in una palpebra di sole | soffusa d'acri fumi | quando le sue lingue | di fuochi fatui | lambiscono | il tremolar delle onde | e dai lumi | ch'ad uno ad uno | accendono gli occhi | scuri di vetusti androni..." (p. 17), traendo dalla fantasmagoria delle immagini poste a creare il suo paesaggio sentimentale, un'emozione forte che attraversa una visione di vita e di esistenza di raro spessore. E da quanto esprime ed osserva, appare chiaramente la sua ricchezza di artista nel campo tanto della pittura che della poesia e della scultura nel quale s'è cimentata, e con fortuna, anche negli anni giovani, sollecitata ed a ragione, dal suo Professore e maestro, Lello Voce. E bene ha fatto, come dice ella stessa, ad uscire "dal tunnel di una estrema timidezza, partecipando a concorsi ed alla vita conviviale". In queste pagine, ella ci offre una chiara e felice prova della sua lusinghiera maturità espressiva, per cui può bene augurarsi che le sue "discendenti" sappiano felicitarsi con una donna esemplare come lei, orgogliosa, senz'altro, di essersi assicurata il suo buon posto nella loro memoria, come nei misteriosi lineamenti dell'arte prediletta. |